Il paradosso del vino naturale

La vicenda dell'etichetta vinicola Pàcina mette in risalto il contrasto crescente tra un modo naturale e tradizionale di fare agricoltura e le logiche dei regolamenti delle certificazioni.

Tra i tanti aggettivi che vengono accostati al sostantivo "vino" nel lessico tecnico-commerciale del settore vinicolo, "naturale" è uno di quelli che non vorremmo sentire. Ci aspetteremmo che tutto il vino fosse naturale, in senso generale; quello buono sperabilmente, quello costoso a maggior ragione, quello certificato sicuramente... o forse no?

La definizione di "vino naturale" si sta facendo largo anche tra i consumatori meno addentro alla materia, per identificare il vino che non contiene additivi chimici, neanche quelli consentiti dalle certificazioni biologiche o di qualità. Ne deriva l'assurda conseguenza che chi vuol produrre vino come si faceva nei secoli passati, secondo tradizioni e "ricette" tramandate da generazioni, si mette fuori dalla strada maestra e rischia di perdere, ad esempio, la certificazione DOC.

Questo è successo all'Azienda Agricola Pàcina, località adagiata tra le colline senesi, la cui titolare, Giovanna Tiezzi, ha dovuto a un certo punto scegliere tra mantenere la Denominazione di Origine Controllata sul suo sangiovese chiantigiano oppure continuare a produrlo come i suoi antenati.

Il problema nasce dal fatto che le stesse linee guida che servono a certificare vini biologici e doc vietando o limitando la chimica nella fase di coltivazione in vigna, la consentono nei procedimenti di trasformazione da uva a vino, in cantina. Sostanze chimiche di varia natura vengono aggiunte "regolarmente" (ovvero entro i limiti di legge e dei regolamenti delle certificazioni) durante questa fase di lavorazione: servono ad esempio a stabilizzare il vino, a migliorarne la consistenza, l'aroma o anche per rendere pronti alla vendita vini molto giovani.

Il risultato di queste aggiunte è che, oggi, il gusto standard di ciò che, ad esempio, viene chiamato, testato e infine certificato come "chianti" o "sangiovese", non è più quello che era un tempo, quando la chimica non esisteva. All'ennesima prova dell'assaggio, in cui il vino di Pàcina non veniva più riconosciuto come sangiovese chiantigiano ("non conforme" è la sentenza), la vignaiola ha deciso di rinunciare alla certificazione DOC, nonostante le sue uve fossero tutte sangiovese e nonostante Pàcina si trovi ancora nel Chianti.

La questione è stata portata all'attenzione di molti dal film-documentario "Resistenza naturale" di Jonathan Nossiter, l'autore di "Mondovino", che racconta appunto la ribellione di alcuni viticoltori alla standardizzazione dei vini DOC. Torniamo dunque alla definizione "naturale" che però non piace neanche ai viticoltori "naturali": "E' difficile dare una definizione. Per noi che facciamo questo lavoro c'è solo questo modo di fare il vino, e mi dispiace che ci dobbiamo definire". Lo ha dichiarato la stessa Giovanna Tiezzi a Radio Lattemiele, in una recente intervista (ascoltala) che fa parte di una serie di trasmissioni dedicate all'agricoltura tradizionale, realizzate da Earth Day Italia per "Tra Campagne intelligenti e montagne all'avanguardia", progetto legato all'Expo e sostenuto dal Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

La questione, oltre che "filosofica" e storica ha anche un effetto pratico che a molti sfugge: "Il regolamento del biologico prevede che non si usi chimica sintetica in campagna ma che la si usi in diverse forme in cantina. Questa differenza non è evidente in etichetta, dove non sono riportati gli ingredienti del vino". In effetti il vino, anche quello DOC, è un alimento del quale il consumatore ignora quasi tutti gli ingredienti, perché non elencati sulla confezione.

L'Azienda Pàcina comunque continua a fare il suo vino d'origine etrusca, alla maniera degli etruschi, con gli ingredienti degli etruschi. Perché qui le memorie sono non solo antiche, ma ancestrali. Tra queste colline senesi però si lavora anche con lo sguardo al presente, e al futuro, all'integrazione tra agricoltura e turismo: ai dieci ettari di vigneti si aggiungono anche coltivazioni "naturali" di legumi, olio, erbe, ortaggi, e nei boschi si organizzano escursioni per i turisti, che vengono alloggiati nell'antico casale del mezzadro. Mancano gli animali: anche qui per non incorrere in regole di allevamento troppo restrittive, in contrasto con i metodi "naturali" del passato.

La tradizione comunque non rischia di perdersi. Accanto a Giovanna lavorano il marito Stefano, la figlia Maria, e la madre Lucia che già nel 1987, quando dirigeva l'azienda, aveva voluto eliminare i solfiti dal procedimento di produzione. E la storia risale nel tempo di ben cinque generazioni di viticoltori: uomini e donne, ecologisti e "naturalisti" ante litteram che hanno lasciato in eredità a Giovanna una visione chiara: "E' la storia di questa terra. Tutti noi abbiamo avuto forse la sensibilità di tramandarla ma non ne siamo i protagonisti; protagonista è solo la terra di Pàcina".

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