CAMBIAMENTO CLIMATICO
9 Maggio 2018

Clima alla resa dei conti: abbiamo solo 10 o 15 anni per invertire la rotta

Riccardo Valentini, climatologo dell’IPCC, denuncia l’aumento delle emissioni di gas serra, e avverte dell’urgenza di agire per ridurle da subito e azzerarle entro fine secolo.

Abbiamo incontrato Riccardo Valentini al Villaggio per la Terra in occasione della Giornata Mondiale della Terra. Il climatologo, che nel 2007 vinse il premio Nobel per la pace come membro dell’IPCC (Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici) dell'ONU, ha partecipato a un talk show pubblico con istituzioni, imprenditori, personalità, artisti e giornalisti, per fare un punto sugli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030. Dall’intervento di Valentini, e di altri interlocutori, sono emersi dati allarmanti sull’urgenza di un’azione più decisa contro l’inquinamento dell’atmosfera e sulle misure di resilienza da prendere in uno scenario di cambiamenti climatici ormai dati per scontati. Qui è possibile rivedere l’intero talk show trasmesso in diretta il 22 aprile scorso dal Villaggio per la Terra.

Professor Valentini, abbiamo assistito a un forum dedicato agli obiettivi del 2030, ma in generale al problema dei cambiamenti climatici e dell'ambiente. Lei fa parte di un panel dell'ONU che ha vinto il nobel nel 2007 per questi studi, per aver sensibilizzato le persone. Se undici anni fa era un problema, adesso è un allarme rosso.

Si, purtroppo non è bello essere definiti delle cassandre. Ormai sono più di 20 anni che la comunità scientifica pone al centro dell’attenzione il cambiamento climatico e non solo: anche il consumo delle risorse del pianeta, e la difficoltà di continuare a sostenere una popolazione in crescita, con queste risorse che sfruttiamo in maniera devastante. Quindi oggi siamo alla resa dei conti, come quando uno va al ristorante, si abbuffa, poi arriva il conto e dice: “Non mi ero accorto di aver mangiato così tanto”. Ecco, oggi forse abbiamo questo sentimento: ci siamo accorti della grande abbuffata.
Le grandi novità degli ultimi tempi sono sicuramente il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite e dei governi, grazie all'Accordo di Parigi, della necessità di agire; e devo dire anche il ruolo importantissimo di papa Francesco, della Laudato Si’, l'enciclica che ha veramente colpito al cuore. Lo dico da scienziato, perché anche a noi, come comunità, ha dato una grossa mano a veicolare i nostri studi e quindi far crescere una coscienza globale su questo. Siamo in un momento in cui bisogna agire. Le dichiarazioni abbiamo fatte, gli organi di governo internazionali sono attenti, ma è necessario agire: agire a livello individuale, nei comportamenti delle persone, e agire a livello istituzionale, con le imprese che devono fare meglio e devono rispettare l'ambiente. È una grande casa, come la chiama papa Francesco, di tutti i cittadini che devono fare qualcosa per cambiare.

Assistendo al talk show è emerso un problema: il cambiamento climatico c'è, e ci sarà: è inesorabile; e questo agire di cui ha parlato non è fare piani a lungo termine, che ovviamente servono, ma agire “in fretta e tanto” per usare le sue parole.

Si, io penso che la cosa è veramente urgentissima. I numeri ci dicono che abbiamo più o meno dieci o quindici anni per mettere in campo delle riduzioni di emissioni. Noi stiamo ancora aumentando le emissioni di gas serra che producono il riscaldamento globale! Dobbiamo ridurle e cambiare il trend: cambiare rotta a 180 gradi. E abbiamo poco tempo, perché più ritardiamo e più è difficile farlo.  Dobbiamo ridurre del 50% le emissioni nel 2050 e ridurle a zero entro la fine del secolo. Abbiamo bisogno quindi di accelerare e di cambiare. Come?  È importante cominciare a parlare di questioni che riguardano la società, come la disuguaglianza sociale o la povertà. Sembra strano: abbiamo iniziato ad affrontare i cambiamenti climatici come un problema energetico (il petrolio, i carboni fossili); poi negli ultimi anni siamo passati a pensare che l'agricoltura, ad esempio, è un settore che contribuisce alle emissioni di gas serra; oggi siamo al terzo livello: la disuguaglianza. Sì, è vero: per poter cambiare gli stili di vita e avere un'educazione ambientale, oggi bisogna entrare soprattutto nelle fasce di popolazione più povera. Se vediamo negli “ambientalisti” un’élite, il mondo non cambierà mai. Dobbiamo far cambiare la società nelle periferie delle città, nelle scuole più povere; anche in Africa, nei continenti più poveri.
Dobbiamo invertire quelli che sono dei modelli del passato. Ad esempio l'idea della macchina, del SUV: se uno va a Scampia a Napoli, vede che l'ideale per un ragazzino che cresce in quell'ambiente è avere una macchina di alta cilindrata.

Vale anche a livello più “basso”: dire a un contadino della Cina o dell'India di andare a combustibili verdi è un assurdo.

Esatto, oppure dirgli che non c'è bisogno che usi tutti quei fertilizzanti e pesticidi perché oggi si può ritornare ad un'agricoltura più sana e più naturale. Questo è un altro grande tema. Noi abbiamo sconvolto il pianeta proprio in questo senso: oggi anche il contadino africano butta pesticidi. Una volta non era così. Quindi dobbiamo penetrare in queste [società]. Come lo facciamo? Sicuramente anche riducendo le disuguaglianze: se introduciamo più ricchezza e benessere, le persone saranno anche più educate, andranno a scuola, si potranno permettere quindi di cambiare la società. Il passaggio finale è un cambiamento anche verso i poveri, verso il sud del mondo.

Lei è un docente universitario di materie ambientali. Che ruolo hanno le università, soprattutto quelle grandi, dell'occidente? La tecnologia forse già c’è; non manca forse la parte degli economisti, dei manager, degli studi politici, che indirizzino questo cambiamento? Il cambiamento verso il petrolio fu immediato, per le tecnologie green è invece molto lento.

Quello che dice è molto giusto. Oggi possiamo dire che abbiamo le tecnologie. Faccio sempre un esempio: se gli Stati Uniti decidessero di porre il limite alle emissioni di tutte le automobili a 150 grammi di CO2 (al km, ndr.), il giorno dopo il MIT, Stanford, Berkeley e tutte le grandi università, avrebbero già il motore pronto. È così, lo vediamo: nei nostri laboratori crescono le idee, soprattutto nei giovani, di nuovi processi, nuovi sistemi per ridurre i consumi. Però spesso rimangono come rami secchi, perché i giovani poi vengono abbandonati. Dovremmo investire molto sui giovani ricercatori per la loro capacità di aiutarci.
Sicuramente sì: abbiamo le tecnologie, ma la politica è latente. La politica deve avere, secondo me, un obiettivo etico da porre sopra a tutto: alle lobby, agli interessi, al consenso. Qual è l'obiettivo etico? Mantenere la specie umana; mantenere il nostro pianeta, la nostra casa. Quindi dobbiamo imporre dei limiti di natura politica. A un certo punto ci dissero di non fumare nei locali pubblici, e oggi nei ristoranti stiamo tutti meglio, respiriamo bene, sentiamo gli odori e i sapori dei cibi. Lo abbiamo fatto in un giorno. Dunque si può arrivare ad avere una politica etica che dica: “Basta, bisogna fare così e non si discute! All'inizio pensavo che il sistema si potesse riorganizzare con il mercato, con gli incentivi; ma è troppo lento, quindi bisogna cominciare a pensare a un’etica. Questo però è un po’ più complicato.

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