Il problema dei migranti ambientali, ancora non regolamentato a livello internazionale, descritto da una delle associazioni presenti alla Marcia per la Terra.
di P. Camillo Ripamonti - Presidente del Centro Astalli, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia
Parto da un’immagine che è stata sotto gli occhi di tutti, ma che abbiamo già dimenticato: quella delle centinaia di migranti che nelle ultime settimane hanno attraversato l’Europa e che anche ora continuano a farlo, ma lontano dai riflettori. L’Europa, non avendo una politica migratoria comune, ha affrontato la questione degli arrivi alla frontiera est in modo frammentario, rimanendo in scacco delle singole autonomie nazionali, pur trovandosi di fronte a una tipologia di migranti ben inquadrabili in una categoria del diritto internazionale, i rifugiati. Nei molti casi in cui questo inquadramento è più difficile si individuano sotto-categorie di migranti che avrebbero meno diritto a migrare (ammesso che questa gradualità sia legittima), i cosiddetti migranti economici.
Ma il panorama delle migrazioni è ben più articolato e nel tentativo di classificazione rientrano anche i migranti ambientali, per i quali non c’è ancora un inquadramento e una tutela nel diritto internazionale. Tutti ormai riconoscono il legame tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate che consiste nella necessità di migrare a causa di condizioni che hanno reso invivibile il proprio territorio, anche se spesso è molto difficile isolare le cause ambientali dalle altre tipologie di motivazioni che spingono le persone a migrare. Stime ottimistiche ci dicono che nel 2050 saranno circa 250 milioni le persone che si sposteranno dalla propria terra per motivi ambientali. 50 milioni nella sola Africa. Considerando l’impatto che le migrazioni dal continente africano hanno sull’Italia in particolare, occorre allora non perdere tempo nell’approccio alla questione migratoria in generale e sulle migrazioni per cause ambientali in particolare.
Anche se non tutti lo riconoscono, i migranti ambientali sono certamente migranti forzati. Si parla ormai di oltre 32 milioni di persone, un numero destinato ad aumentare. Di fronte a questo dato di realtà non possiamo far finta di nulla. Nascondersi dietro le definizioni è irresponsabile e fa perdere solo tempo. Tutti sanno che, a maggior ragione per i migranti ambientali, le motivazioni che spingono una persona a partire dalla propria terra si mescolano tra loro. In un territorio divenuto instabile dal punto di vista ambientale, in cui la produttività dei terreni si è ridotta e la disponibilità di cibo e acqua diminuisce, è assai probabile che imperversino conflitti, esacerbati proprio dalla scarsità delle risorse. Quando da questo luogo una persona decide di partire, si tratta di una migrazione spontanea o forzata? Ma soprattutto è così importante classificare tale migrazione? Credo che tutto ciò rischi di divenire un alibi più che essere una vera domanda di senso.
È più importante immaginare politiche di accoglienza considerando che, indipendentemente dalla nostra classificazione, la persona cercherà in ogni modo di realizzare il proprio progetto migratorio. Lo abbiamo visto in questi anni e continuerà a essere così per il futuro. I numeri previsti sono tali che non è pensabile non tenerli in considerazione. Occorre lavorare per politiche migratorie che tengano conto del dato reale e di soluzioni realistiche. All’affermazione solo apparentemente oggettiva che “non possiamo accoglierli tutti”, dovremmo sempre chiederci perché non usiamo lo stesso criterio con le risorse naturali, che invece continuiamo ad utilizzare in larghissima parte. Questo forse richiamerebbe la nostra responsabilità nell’aver modificato l’ambiente e il nostro dovere morale a rispondere al bisogno migratorio dei rifugiati ambientali.