23 Luglio 2019
Gabriele Renzi
TERRITORIO
23 Luglio 2019
Gabriele Renzi

Degradazione del suolo, quella perdita di vita che può portare al deserto

Tre quarti del pianeta a rischio. Centritto (IVALSA/CNR): parlare di recupero senza intervenire sul climate change è solo un esercizio accademico

Uno degli effetti del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è il fatto che aree del pianeta un tempo fertili e predisposte alla vita si vanno gradualmente ad inaridire. È il fenomeno della degradazione del suolo che secondo l’Atlante mondiale della desertificazione prodotto dalla Commissione europea riguarda i tre quarti delle terre del pianeta.

Secondo il rapporto entro il 2050, l’avanzare della degradazione del suolo potrebbe provocare un crollo del 10% della produzione agricola mondiale e costringerà alla migrazione 700 milioni di persone.

Nel lungo periodo questo suolo degradato potrebbe addirittura diventare deserto con conseguenze che possiamo immaginare. Ad essere colpite in particolar modo, Cina, India e Africa subsahariana, ma il problema riguarderà anche l’Italia che secondo alcune stime ha già un quinto del suo territorio a rischio.

Mauro Centritto, Direttore dell’IVALSA, Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree del CNR, ne parla intervenendo su Ecosistema, programma di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana Italia.

   

Quand'è che si parla di degradazione del suolo e quali sono le sue le sue cause?

Degrado del terreno e desertificazione sono connessi, il processo di desertificazione non è altro che un lento processo di degrado del terreno.

Darei la definizione dell’UNCCD, cioè del segretariato delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione, che ne parla come di un lento degrado del territorio per perdita della copertura della vegetazione, per erosione del suolo, erosione eolica e ovviamente l'erosione dovuta alle piogge, da cui consegue la perdita dello strato apicale, quello fertile, del terreno.

Tutto ciò avviene nelle aree aride, semi aride e sub umide secche della Terra ed è dovuto a molteplici fattori.

Sicuramente ci sono i fattori climatici e il cambiamento climatico, ma la causa principale sono le attività antropiche.

Quando parliamo di desertificazione quindi non dobbiamo pensare alla naturale espansione dei deserti, come ad esempio il deserto del Sahara, ma a questo lento degrado del territorio.

Quando parliamo di fattori climatici, parliamo soprattutto di cambiamenti climatici e anche qui torniamo sempre ad una matrice di natura antropica.

La degradazione si riscontra nei territori aridi, sub umidi e semi aridi perché nelle zone del mondo dove c’è una piovosità molto intensa, come nelle foreste pluviali, non c'è l'alternanza tra periodi secchi e periodi piovosi per cui quando si rimuove la vegetazione questa ricresce velocemente a ricoprire il territorio; quando invece c'è un’alternanza tra clima secco e clima piovoso, se si va a rimuovere la copertura vegetale il terreno rimane per periodi più o meno lunghi esposto alle intemperie favorendo fenomeni di erosione che portano a questa perdita graduale di fertilità.

Nel lungo periodo, se non ci sono meccanismi di recupero dei territori degradati, si può arrivare con un processo lento alla desertificazione, quindi alla fase finale, la fase terminale che noi identifichiamo nei deserti che oggi conosciamo.

  

Quello della degradazione è un fenomeno che secondo le ultime stime riguarda i tre quarti della superficie globale e anche un quinto del territorio italiano. È un fenomeno reversibile? Si può migliorare un suolo degradato oppure non possiamo che attivarci per evitare che la situazione peggiori?

Si può far molto e questo è uno degli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, in particolare il target 15.3 dell’obiettivo 15 che parla proprio di raggiungimento della cosiddetta land degradation neutrality entro il 2030.

Ogni anno per le attività antropiche milioni di ettari vengono degradati, ma grazie alla messa in opera di politiche di recupero un'altrettanta quantità di ettari dovrebbe essere recuperata per raggiungere un land degradation neutral world, un mondo dove non si abbia più degradazione dei terreni.

Questo e un obiettivo molto preciso dello sviluppo sostenibile, ma si basa su un’adesione volontaria: ad oggi 110 paesi hanno aderito e si sono impegnati a raggiungere la land degradation neutrality entro il 2030 e tra questi c'è anche l’Italia.

  

Cosa stiamo facendo per mantenere questo impegno?

Il Ministero dell'Ambiente ha messo su una task force costituita dai quattro principali enti di ricerca italiano, quindi Ispra CREA ENEA e CNR, e un progetto pilota che oggi è nella sua seconda fase e che è uno dei pochi progetti pilota già a uno stadio molto avanzato.

È però importante leggere tutto ciò in un'ottica di cambiamenti climatici. È chiaramente bene intervenire sul processo di degrado, non quando terreni sono totalmente degradati anche perché questo ha un costo, ma se non capiamo cosa sta succedendo per i cambiamenti climatici non ci rendiamo conto di cosa si può fare.

Il Mediterraneo è un hot spot climatico, è tra le aree del mondo che maggiormente soffriranno a causa dei cambiamenti climatici. È previsto un aumento medio di temperatura di circa 4.8 gradi con oscillazioni che possono andare da un minimo di 3.2 a un massimo di circa 6. 4.8 gradi in 100 anni come media è tantissimo e stiamo parlando della media annuale, in estate ovviamente le temperature potrebbero essere molto più elevate; al contempo nello stesso periodo è prevista una riduzione di precipitazioni intorno al 34%.

In questo contesto parlare di recupero delle terre degradate è molto difficile perché se non blocchiamo i cambiamenti climatici, recuperare i territori degradati diventerebbe quasi una fatica di Sisifo.

  

Noi come italiani a volte lo dimentichiamo, ma lei ci ricorda che saremo tra le le aree del mondo che più soffriranno gli effetti del cambiamento climatico. Quali sono le aree del nostro paese più a rischio dal punto di vista degradazione del suolo/desertificazione?

Le più esposte sono quelle meridionali per forza di cose, ma in prospettiva tutto il paese.

I numeri che ho dato in precedenza sono quelli che vengono descritti dall’UNCCD, ma studi più recenti ci danno una situazione molto più fosca.

Ci sono dei tipping point, dei punti di non ritorno. Qualora si dovessero raggiungere questi punti di non ritorno scatterebbero tutta una serie di conseguenze che porterebbero a un cambiamento enorme.

Se guardiamo agli ultimi milioni di anni il clima è stato un susseguirsi tra periodi interglaciali e periodi glaciali. Oggi siamo in un periodo interglaciale, al massimo della temperatura tra questi due cicli.

Uno studio dello scorso anno ci dice che se noi faremo scattare questi tipping point, questi punti di non ritorno, passeremo da una transizione interglaciale/glaciale a un nuovo sistema che ci porterà non nella greenhouse, ma nella hothouse; una situazione totalmente differente dove salterebbe questa alternanza interglaciale glaciale. Andremo in una condizione totalmente differente e in questa condizione parlare di recupero dei territori degradati o altro diventerebbe secondo me un esercizio puramente accademico.

Qual è la temperatura diciamo media terrestre accettabile prima che scattino questi tipping point? L'Accordo di Parigi prevede il raggiungimento di una temperatura massima di 2 gradi, anche se sarebbe meglio per raggiungere 1,5. L'obiettivo minimo della Conferenza di Parigi è la temperatura massima per evitare di far scattare i tipping pong che ci fanno ci porterebbero dall'effetto serra alla casa calda e questo ci deve far pensare.

Noi stiamo lavorando al contenimento e al recupero dei terreni degradati perché comunque questo vuol dire anche mitigazione dei cambiamenti climatici e rimettere in moto i servizi ecosistemici, ma tutto ciò ha un senso se tocchiamo i cambiamenti climatici e ci manteniamo al di sotto dei 2 gradi e raggiungiamo gli obiettivi di Parigi.

Intervista a Mauro Centritto del 23 luglio 2019

Cos'è la degradazione del suolo e cosa si può fare che la sua progressione porti ai deserti? Mauro Centritto, direttore dell’IVALSA/ CNR, ne parla intervenendo su Ecosistema, programma di Earth Day Italia trasmesso da Radio Vaticana Italia

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