9 Aprile 2019
Giuliano Giulianini
TERRITORIO
9 Aprile 2019
Giuliano Giulianini

La violenza nel calcio non è stata debellata

Andrea Lorentini, presidente dell'Associazione Familiari Vittime dell'Heysel, racconta i progetti di educazione sportiva per le scuole e l'idea di una giornata nazionale contro la violenza nello sport.

Secondo i dati del Ministero dell'Interno durante la stagione calcistica 2018/2018 gli episodi di violenza o inciviltà legati alle partite di calcio professionistico sono stati 120, in aumento rispetto all'anno precedente. Il bilancio dei feriti è stato di 46 persone tra i civili, 58 tra le forze dell'ordine, 17 tra gli addetti alla sicurezza negli stadi. In tutto ci sono stati 72 arresti e 1023 persone denunciate.

La violenza nello sport è un fenomeno tanto attuale quanto paradossale, visto che riguarda un aspetto della vita civile, lo sport appunto, che dovrebbe rappresentare i valori dell'impegno, della collaborazione e del rispetto per tutti. Il 25 aprile, al Villaggio per la Terra di Villa Borghese a Roma, campioni, esperti, giornalisti e rappresentanti delle istituzioni sportive, si confronteranno con il pubblico in un talk dal titolo “Peace – Metti in campo lo sport!”. Tra gli ospiti Andrea Lorentini, giornalista di Tele Etruria e presidente dell'Associazione Familiari Vittime dell'Heysel. Lorentini è figlio di una delle 39 vittime della strage di tifosi, in gran parte italiani, avvenuta prima della finale di Coppa dei Campioni del 1985. Oggi è attivo nell'educazione dei ragazzi al rispetto reciproco, contro gli eccessi dell'odio tra tifoserie. L'intervista è stata trasmessa nel programma “Ecsistema”, rubrica radiofonica di EarthDay.it, in onda ogni martedì su Radio Vaticana Italia.

Andrea, dagli anni ottanta è cambiato il mondo del calcio rispetto alla violenza? Purtroppo, dalle cronache sembrerebbe di no, con episodi di violenza più o meno gravi. In effetti sembrano episodi meno frequenti che in passato, e soprattutto meno organizzati; ma è realmente così?

La violenza nel calcio non è stata debellata. Un episodio come quello dell'Heysel non si è più verificato però, anche in Italia, negli anni abbiamo avuto comunque delle vittime della violenza legata al mondo del calcio. Ricordiamo Paparelli, ricordiamo Spagnulo, solo per citarne alcuni. È un problema di cultura, oltre che di sicurezza degli stadi; perché l'avversario viene visto come un nemico, quindi spesso le tifoserie tendono a vivere il momento della partita come una guerra alle squadre rivali. Non ci si limita al tifo o magari allo sfottò ironico, che può essere anche divertente, ma si va oltre: spesso si cerca lo scontro fisico, come a voler delimitare un territorio. Purtroppo è un problema di cultura al quale ancora non si è trovato un rimedio. Come associazione, nel nostro piccolo, cerchiamo di promuovere progetti di educazione civico-sportiva per cercare di incidere sulle giovani generazioni.

Tu lavori in un contesto provinciale, ad Arezzo, in Toscana, una storicamente regione “calda” da questo punto di vista. Percepisci una differenza fra il tifo intorno al calcio professionistico, di altissimo livello, e quello dilettantistico o giovanile? C'è una diversa maturità, o comunque un diverso controllo, un diverso grado di violenza fra questi due mondi?

A livello professionistico può fare più notizia. In Toscana ci sono molte sfide di campanile, se così le vogliamo definire, tra le squadre dei vari capoluoghi della regione; soprattutto in categorie come la Serie B e C, e anche a livello giovanile. Io faccio il giornalista sportivo e devo dire che anche nella provincia di Arezzo abbiamo avuto alcuni episodi di violenza, non solo nelle categorie dilettantistiche ma anche nelle giovanili: aggressioni agli arbitri piuttosto che episodi di violenza verbale, magari in tribuna tra i genitori. Credo che la violenza nel calcio esista a tutti i livelli proprio perché non si riesce a vedere l'altro semplicemente come un avversario. Ciò che spaventa maggiormente, su cui quale bisogna lavorare, è che accadono spesso episodi nei campionati giovanili, dove i ragazzi dovrebbero invece vivere quei momenti soltanto come una crescita personale.

L'Associazione Familiari delle Vittime dell'Heysel incontra i bambini delle scuole, proprio perché i problemi culturali vanno risolti principalmente a scuola. Come approcciate i bambini e i ragazzi? Che risposte ne ricevete?

Sviluppiamo progetti legati principalmente all'educazione civico-sportiva. Per esempio in questi anni abbiamo promosso il progetto “Un pallone per la memoria” e coinvolto varie scuole con iniziative pratiche e ludiche, con i ragazzi che si confrontano in tornei di calcio, pallavolo, basket; anche di realtà differenti. In un nostro progetto, ad esempio, abbiamo coinvolto un liceo Bruxelles con due licei italiani, anche per mettere in correlazione ragazzi di lingue e culture in parte differenti. Allo stesso tempo sviluppiamo [attività] anche attraverso la nostra testimonianza. All'Heysel ho perso ho perso mio padre, che è stato insignito della medaglia d'argento al valore civile. Spesso indipendentemente dal fatto che sia mio padre, porto lui come esempio, perché in un momento così drammatico, in cui tra le persone era prevalso l'odio e non c'è stato rispetto per la vita umana, in un momento così buio, il suo è stato un esempio di altruismo. Era un medico. Si era già salvato dalle prime cariche dei tifosi inglesi. È tornato indietro ed è stato travolto da una nuova carica mentre prestava soccorso a dei tifosi. In particolare ad un bambino che era rimasto ferito sugli spalti. Cerco sempre di far capire ai ragazzi che lo sport, il calcio, non è quello che è accaduto all'Heysel; che anche in quei momenti ci possono essere esempi per far capire loro dove stanno il bene e il male. Io stesso ho praticato lo sport e il calcio, nonostante il calcio mi abbia privato un genitore: uno dei drammi peggiori che può provare una persona nella propria esistenza. Ho vissuto lo sport come momento di crescita, di socializzazione e di sviluppo di relazioni che poi mi sono portato avanti nel tempo. Ci sono ragazzi che a tutt'oggi sono miei amici. Attraverso la mia esperienza, e quella di altri associati, cerchiamo di far capire ai ragazzi che lo sport è qualcosa di positivo mettendoli insieme, facendogli condividere delle giornate proprio sviluppare questo rispetto. Ci possono essere agonismo e competizione, ma ci deve essere sempre rispetto.

Come reagiscono i bambini?

Devo dire che c'è grande interesse e che le risposte sono sempre positive. Di solito, siccome l'argomento Heysel è abbastanza delicato, cerchiamo di prepararli, facendo magari delle riunioni preliminari con gli insegnanti; soprattutto se ci troviamo a parlare con ragazzi più piccoli, delle scuole elementari. Anche se di solito privilegiamo scuole medie e scuole superiori, perché comunque è un argomento abbastanza delicato. Vediamo che i ragazzi sono attenti, ed è soprattutto la nostra testimonianza a fare molto breccia. Chiaramente sono delle piccole gocce in un grande mare. Però, laddove siamo riusciti a sviluppare la nostra testimonianza anche con progetti concreti, poi abbiamo avuto una risposta positiva, confermata successivamente dagli insegnanti.

Secondo te c'è modo di recuperare situazioni già compromesse? Per esempio i ragazzi che fanno sport, e calcio in particolare, a livello agonistico? dove le pressioni dell'ambiente, della squadra, della società e anche dei genitori sono ancora maggiori perché c'è la prospettiva di una carriera e di un guadagno? Si può ancora intervenire per far capire che l'avversario è un competitor e non un nemico?

Credo che sia più complicato. Noi per questo abbiamo scelto un target diverso, cercando proprio di intervenire alla radice, quando ancora il ragazzo può essere “ modellato”, detto in senso buono ovviamente, rispetto a dei valori positivi. Quando poi lo sport diventa business, e spesso ci sono di mezzo il denaro e l'ambizione, allora farlo coincidere con l'etica è più complicato. Anche i genitori sono un tasto per certi versi dolente: spesso sono loro che mettono pressione al ragazzo; lo influenzano. Magari ribaltano nel ragazzo quella che è la loro ambizione. Quindi se lo ha messo in panchina l'allenatore diventa incapace, o una persona che non lo sa valorizzare. Parlando spesso con gli istruttori ci rendiamo conto che per loro non è facile gestire le regole in uno spogliatoio, in una convivenza, quando il ragazzo è influenzato dal genitore a casa, o anche durante la partita. Questo è un vulnus che difficilmente si può colmare. Ecco perché secondo me è necessario intervenire a monte.

Invece per intervenire a valle, con le istituzioni, state proponendo una giornata di sensibilizzazione nazionale su questo tema.

Abbiamo avviato dei contatti con l'attuale Governo. L'idea ambiziosa è di istituzionalizzare una giornata nazionale contro la violenza nello sport, che ogni anno sia un momento di riflessione, ma legato anche a progetti concreti. Vedremo quello che poi riusciremo a concretizzare. “Un pallone per la memoria” è un progetto che abbiamo sviluppato con varie scuole in questi anni. Lo abbiamo proposto anche all'attenzione del Governo, in particolare del sottosegretario Giorgetti che in questo momento ha la delega allo sport, come spunto sul quale lavorare per creare ogni anno un momento che sia di riflessione ma anche un momento concreto in cui i ragazzi si possano confrontare a livello sportivo, seguendo determinati valori. Vedremo quale sarà l'evoluzione.

C'è anche un ruolo di noi giornalisti. Quali sono i comportamenti, le frasi, gli scritti, le tendenze più deleterie del nostro mondo in relazione al problema della violenza?

Il calcio è lo sport più popolare d'Italia e anche quello che, a livello giornalistico, fa vendere più giornali, fa più ascolti in televisione, più contatti in radio e sui social. Ci sono alcuni colleghi che tendono ad esasperare determinate rivalità, a creare la polemica anche quando non c'è. Ci sono a volte trasmissioni nelle quali in realtà, più che il giornalismo sportivo, si fa chiacchiera da bar. La comunicazione e i giornalisti hanno un ruolo importante perché orientano l'opinione pubblica, gli umori dei tifosi, e spesso esasperano i toni. In un mondo ideale si dovrebbe fare giornalismo raccontando i fatti, senza fare polemica fine a se stessa. Spesso c'è il giornalista-tifoso, un confine che troppo spesso viene valicato. Quando il giornalista si mette nei panni e parla da tifoso ecco che in televisione vediamo dibattiti in cui le persone litigano e si offendono, e questo poi crea uno spirito di emulazione: qualcosa che andrebbe assolutamente prevenuto. Credo perciò che anche nel giornalismo ci sono situazioni che debbano essere sanate. Magari è fuori tema, ma fino a un certo punto: l'episodio di qualche giorno fa, con quel telecronista che ha offeso l'arbitro donna, tra l'altro mentre stava facendo una telecronaca in diretta. Lì si capisce quanto certi animi si possano esasperare e mandare messaggi che sono assolutamente fuorvianti. Credo che anche la nostra categoria, per tanti aspetti debba fare mea culpa in questi anni, anche se ho la sensazione che spesso qualcuno si alimenti proprio di questo.

Intervista ad Andrea Lorentini del 9 aprile 2019

Il giornalista e presidente dell'Associazione Familiari Vittime dell'Heysel analizza la situazione delle violenze intorno al mondo del calcio e presenta i progetti di educazione allo sport che l'associazione porta nelle scuole.

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