Nei capoluoghi di regione intervistati, nell’ultimo decennio, il 25% ha costruito in territori a rischio. La mitigazione del rischio idrogeologico non è ancora una priorità
L’Italia è strettamente legata ai problemi riguardanti il dissesto idrogeologico e l’eccessivo consumo di suolo, mentre i cambiamenti climatici rendono ancora più evidenti gli effetti causati da calamità naturali come frane, alluvioni e terremoti. A dimostrarlo sono i dati di Ecosistema Rischio 2017 redatti da Legambiente, che ha realizzato un’indagine sulle attività di prevenzione svolte dalle amministrazioni comunali in Italia. Secondo Legambiente, sono 7,5 milioni gli italiani che lavorano o vivono in aree definite a rischio e, dunque, quotidianamente sono esposti al pericolo; dal 2010 al 2016 le sole inondazioni hanno provocato 145 vittime e l’evacuazione di oltre 40.000 persone. I danni causati dalle calamità naturali sono ingenti e non hanno colpito “solo” fisicamente i cittadini e il territorio: la perdita economica dal maggio 2013 e il dicembre 2016 sarebbe pari ai 7,6 miliardi di euro.
Di fronte a questi numeri, Ecosistema Rischio 2017 si concentra in particolar modo sull’entità del rischio idrogeologico di città e grandi agglomerati urbani. Quest’ultimi infatti, precisa il report, “rappresentano il vero cuore della sfida per l’adattamento ai cambiamenti climatici” proprio perché al loro interno vive la maggior parte dei cittadini. Dal 2010 ad oggi – afferma Legambiente – sono 126 i grandi centri urbani dove si sono registrati impatti rilevanti con 242 fenomeni meteorologici estremi. Roma, ad esempio, si è allagata intensamente più di due volte l’anno, per un totale di 17 episodi negli ultimi sette anni; la Sicilia – tra alluvioni e trombe d’aria – è la regione più colpita con 25 eventi.
Nel 70% dei comuni italiani intervistati si trovano abitazioni in aree a rischio. Nel 27% sono interi quartieri e nel 15% scuole oppure ospedali. Nonostante il quadro di partenza non sia del tutto rassicurante, l’intervento nei pressi delle aree urbane non è ritenuto sempre impeccabile. Alla richiesta d’informazioni di Legambiente hanno risposto 51 capoluoghi di provincia (il 46% dei capoluoghi italiani), tra cui 10 capoluoghi di regione. Mancano all’appello quest’anno città importanti come Milano, Roma, Napoli e Palermo (che invece avevano risposto, ad eccezione di Milano, all’edizione 2016).
Tra le amministrazioni capoluogo di provincia intervistate, nel 92% dei casi insistono abitazioni in aree a rischio, nel 80% sono fabbricati industriali, nel 53% dei casi l’intero complesso di un quartiere e nel 51% delle città persistono in pericolo strutture sensibili o commerciali. Le politiche di delocalizzazione da terreni a rischio appaiono fin troppo risicate per abitazioni e fabbricati: sono state applicate misure in tal senso rispettivamente nell’8% e nel 6% dei casi. Statistiche da tenere in considerazione anche a fronte di un altro dato: un quarto del campione intervistato ha ammesso di aver edificato in aree a rischio nell’ultimo decennio (25%), nonostante i termini previsti dalla legge.
I numeri più incoraggianti si registrano nel sistema locale della protezione civile. Nel 98% dei casi è previsto un piano d’emergenza (aggiornato nel 62% dei comuni); esercitazioni sono state svolte dal 61% delle amministrazioni e il 78% è dotato di sistemi di monitoraggio e allerta (realizzazione di attività d’informazione nel 76% dei casi).
Da Legambiente è ritenuto un “segnale importante” l’insediamento della Struttura di missione Italia sicura 2014, in cui sono stati stanziati 654 milioni per 33 cantieri; interventi che fanno parte del più ampio Piano delle città metropolitane, per un totale di 132 azioni complessive e 1,3 miliardi di euro investiti. Nonostante lo sforzo – secondo il report – ancora una volta non c’è uniformità tra le politiche di riduzione del rischio idrogeologico e quello di adattamento ai cambiamenti climatici. Il Piano, infatti, comprende esclusivamente interventi strutturali (scolmatori, casse di espansione, ampliamento delle sezioni idrauliche ecc.) e non gode di una visione d’insieme del problema.Ad esempio, sottolinea Ecosistema Rischio 2017, a garantire la sicurezza non sono nuovi argini e intubamenti di fiumi, bensì la restituzione dello spazio al naturale deflusso delle acque oppure una seria politica di delocalizzazione degli edifici. Per evitare il più possibile tragedie annunciate, oppure città paralizzate da piogge e frane, è necessario approfondire la conoscenza del territorio ed evitare piani e programmi puntuali e slegati dal contesto territoriale.